Borgonato di Franciacorta 07 giugno 2010
Fondazione Berlucchi
Gli aspetti umani della scienza oncologica
La malattia neoplastica ha visto la realizzazione di importanti scoperte nel corso degli ultimi anni, ma ancora non siamo riusciti a comprendere appieno perché e come il tumore si sviluppi e non siamo ancora in possesso di terapie soddisfacenti per tutti i tipi di neoplasia. Il principale fattore di guarigione risulta ancora la diagnosi precoce del tumore, ma spesso i pazienti arrivano alla osservazione con neoplasie in stadio avanzato. Da ciò deriva la constatazione che tutti i medici nell’esplicare la propria attività professionale si sono trovati o si troveranno di fronte al problema della comunicazione al paziente sullo stato della sua insidiosa malattia e che esiste il problema, per medico, paziente e famiglia di come gestire, in caso di insuccesso delle cure, la drammatica esperienza di una fine annunciata.
La comunicazione di una grave malattia è regolata in altri paesi da norme che, per rispettare il diritto del paziente alla corretta informazione, rasentano a volte la brutalità. In Italia bisogna che il medico si tenga in equilibrio tra l’obbligo legale della informazione e la umana necessità che la informazione sia “una rivelazione progressiva del suo stato con un approccio graduale che tenga conto volta per volta di ciò che il paziente desideri effettivamente sapere, ovverosia quanta parte di verità egli sia in grado di sopportare, mantenendo un atteggiamento il più possibile franco e corretto” (C.N.B. comitato nazionale di bioetica).
La comunicazione medico-paziente è diventata argomento di studio scientifico e ne fa fede la osservazione che nella raccolta on line delle pubblicazioni scientifiche chiamata pubmed, tra il 1995 e 99 erano censiti 517 articoli e tra il 2005 e 2009 erano 1503, circa il triplo.
Da questi studi si evidenzia che Il medico comunica bene col paziente oncologico solo se guidato dalla empatia.
L’empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da uno sforzo di comprensione intellettuale dell’altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. L’empatia è considerata un elemento fondamentale della relazione medico-paziente e viene talvolta contrapposta alla simpatia : quest’ultima è un autentico sentimento doloroso, di sofferenza insieme al paziente (da syn- “insieme” e pathos “sofferenza o sentimento”) e sarebbe quindi un ostacolo ad un giudizio clinico efficace; al contrario l’empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto.
Quando un operatore sanitario, medico o infermiere che sia, ha un rapporto simpatetico rischia di cadere nella sindrome di “burnout”.
Il concetto di burn-out (alla lettera essere bruciati, esauriti, scoppiati) è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa registrati nei lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale.
La oncologia è, assieme alla attività nei servizi di rianimazione, la branca della medicina che pone, più spesso di altre, il medico in contatto con pazienti in pericolo di vita e talora avviati a morte certa, una situazione che oltre al paziente ed ai familiari coinvolge drammaticamente anche il medico. L’attenzione crescente a questo problema è dimostrata dalla osservazione che in Pubmed digitando le parole chiave “burnout e oncologia” risultano pubblicati 24 articoli nel quinquennio 1995-99 contro 80 articoli nel quinquennio 2005-09, più del triplo. Dalla loro lettura emerge un dato impressionante e cioè che un terzo dei medici ed infermieri coinvolti in attività oncologiche sono in stato di “burnout”. Iostesso ho avuto modo di registrare la fuga dalla chirurgia di alcuni giovani specializzandi proprio per la loro incapacità psicologica di affrontare l’insuccesso della cura dei pazienti neoplastici.
Se la fine della vita coinvolge così pesantemente dei medici professionisti si può ben capire come tale evento sia vissuto in modo drammatico dal paziente e dai suoi familiari, anche in relazione al grado di cultura, alle credenze religiose o filosofiche ed alla appartenenza ad una società del benessere che pensa di esorcizzare la morte facendo finta che non esista, che non sia un passo obbligato della nostra vita.
Descriverò ora alcuni casi realmente osservati, che possono essere emblematici di alcuni dei problemi che devono essere affrontati dalla psiconcologia, che ormai è divenuta una entità assistenziale e scientifica.
Il primo caso riguarda un paziente di 40 anni, politicamente impegnato e di estrazione cattolica, che era stato operato per un carcinoma gastrico e che dopo tre anni presentò una massiva recidiva peritoneale della malattia. Il fegato e gli altri organi erano indenni, ma la evoluzione della patologia portò al congelamento delle anse intestinali con occlusione totale. Il paziente fu ricoverato in reparto internistico e posto in Nutrizione Parenterale Totale.
Conoscendo la sua formazione religiosa ed immedesimandomi nella sua situazione di padre di una giovane famiglia mi proponevo di affrontare con il paziente il suo problema, quello cioè di avere ormai un identificabile limite temporale alla sua vita e di poter quindi usare il tempo residuo in un modo cosciente e libero. Fui impedito di attuare il mio proposito dal fratello prete, che si oppose con la motivazione di evitare al paziente lo stato della disperazione.
Andavo ogni tanto a trovarlo mentre egli, in assenza di metastasi diffuse in altri distretti, si spegneva molto lentamente, sostenuto come era dalla nutrizione parenterale. Un mattino il medico di reparto mi accolse con un sorriso soddisfatto e, tutto orgoglioso, mi informò che nel corso della notte il paziente aveva avuto un arresto cardiaco, ma erano stati così bravi e tempestivi da intubarlo, defibrillarlo e riprenderlo. Morì venti giorni dopo.
Un secondo caso riguarda una signora Triestina, laica ed amante della vita come solo la Triestine sanno essere, che fu operata all’eta di 43 anni da Pezzuoli per un sarcoma del cardias altamente indifferenziato con linfonodi metastatici. La paziente fu inviata a domicilio con la pietosa diagnosi di ulcera gastrica, ma riuscì a venire in possesso, tramite il medico di famiglia, della vera diagnosi e ricorse alla enciclopedia britannica per studiare il proprio caso. Vi era scritto che la prognosi era infausta al 100%, ed anche noi a dire il vero eravamo convinti della prognosi negativa. Io controllavo periodicamente in ambulatorio questa paziente che, piangente e ormai convinta della fine prossima della sua vita, mi descriveva sintomi che mi spingevano a cercare quella recidiva che logicamente tutti, me compreso, ci aspettavamo. Passarono gli anni e la recidiva non venne mai. La paziente passava da una depressione all’altra fino a trascorrere alcuni periodi in clinica psichiatrica. Morì di vecchiaia, ma la guarigione chirurgica fu del tutto inutile per la qualità della vita.
Il terzo ed ultimo caso riguarda un religioso, combattivo leader della chiesa del dissenso, che era affetto da una neoplasia del pancreas localmente avanzata, infiltrante i muscoli paravertebrali. Era affetto da dolori insopportabili e perciò, dopo molti ripensamenti e colloqui con il paziente che era cosciente del suo male, mi decisi ad operarlo, eseguendo la asportazione a la demande della massa visibile ed avviandolo ad un trattamento chemioterapico adiuvante. L’intervento ottenne la scomparsa del dolori ed una ripresa della qualità della vita che permise al paziente di scrivere alcune delle sue più belle espressioni artistiche. Era infatti un poeta, di nome Davide Maria Turoldo, che cantava forti sentimenti umani e religiosi. Con lui avevo più volte parlato del problema della fine della vita con molta serenità e fiducia. Era una cosa che accettava facilmente, mi disse, mentre non riusciva a darsi una spiegazione teologica del dolore fisico. Dopo un anno e mezzo ebbe una recidiva occlusiva e lo rioperai in modo palliativo per ricanalizzarlo. Continuava intanto a scrivere e a predicare. Dopo un altro anno era in fase terminale per il progredire inesorabile della malattia e mi chiamò a Milano al suo capezzale.
“Professore – mi disse con il suo sguardo ribelle e lottatore- cavami questa cosa dalla pancia” .
Cacciai via tutti dalla stanza per parlargli a tu per tu.
“Davide – gli risposi- sono venuto a trovarti in veste di amico e non di medico curante. Sono venuto per sapere se tutto quello che hai detto nelle prediche e che hai scritto nelle tue poesie è una cosa in cui credi veramente. Io ci credo. E tu?”
La luce della lotta si spense nel suo sguardo.
“ Ho capito. Ho capito “ ripetè ed un velo che non saprei come definire scese su di lui.
Due giorni dopo era morto ed io mi chiedo ancora se ho fatto bene o ho fatto male nel dirgli la verità.
Da questi esempi di vita vissuta si può evincere la vasta problematica umana tuttora aperta nella cura delle malattie tumorali: dalla comunicazione, all’accanimento terapeutico, alla necessità del sostegno psicologico per i deboli, all’importanza delle cure anche solo palliative. In una parola si apre l’epoca in cui la qualità della vita, così come viene percepita dal paziente, deve essere considerata un parametro di valutazione delle cure il cui valore è anche superiore rispetto alla durata della vita stessa.
Ermanno Ancona