Gli aspetti umani della scienza oncologica
La malattia neoplastica ha visto la realizzazione di importanti scoperte nel corso degli ultimi anni, ma ancora non siamo riusciti a comprendere appieno perché e come il tumore si sviluppi e non siamo ancora in possesso di terapie soddisfacenti per tutti i tipi di neoplasia. Il principale fattore di guarigione risulta ancora la diagnosi precoce del tumore quando è ancora piccolo, ma spesso i pazienti arrivano alla osservazione con neoplasie in stadio avanzato. Da ciò deriva la constatazione che tutti i medici nell’esplicare la propria attività professionale si sono trovati o si troveranno di fronte al problema della comunicazione al paziente sullo stato della sua insidiosa malattia e del problema, per medico, paziente e famiglia di come gestire, in caso di insuccesso delle cure, la drammatica esperienza di una fine annunciata.
Vi sono alcune specializzazioni che pongono più spesso di altre il medico di fronte a tale evenienza che è di per sé un evento psicologicamente durissimo per il paziente e per i suoi familiari, ma non lascia certo insensibile il medico curante. I medici che vivono un
prolungato contatto con i pazienti in pericolo di vita e spesso avviati a morte certa, sono infatti esposti al “burn out”; concetto di burn-out (alla lettera essere bruciati, esauriti, scoppiati) è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa registrati nei lavoratoriinseriti in attività professionali a carattere sociale. Ho avuto modo di registrare la fuga di giovani specializzandi dalla chirurgia proprio per la incapacità psicologica di affrontare l’insuccesso della cura nei pazienti neoplastici.
Se la fine della vita coinvolge così pesantemente dei medici professionisti si può ben capire come tale evento sia vissuto in modo drammatico dal paziente e dai suoi familiari, anche in relazione al grado di cultura, alle credenze religiose o filosofiche ed alla appartenenza ad una società del benessere che pensa di esorcizzare la morte scotomizzandola.
Il mio contributo al tema del dibattito consisterà nel descrivere alcuni casi realmente osservati, che possono essere emblematici di alcuni dei problemi che devono essere affrontati dalla psiconcologia, che ormai è divenuta una entità assistenziale e scientifica.
Il primo caso riguarda un paziente di 40 anni, politicamente impegnato e di estrazione cattolica, che era stato operato per un carcinoma gastrico e che dopo tre anni presentò una massiva recidiva peritoneale della malattia. Il fegato e gli altri organi erano indenni, ma la evoluzione della patologia portò al congelamento delle anse intestinali con occlusione totale. Il paziente fu ricoverato in reparto internistico e posto in Nutrizione Parenterale Totale.
Conoscendo la sua formazione religiosa ed immedesimandomi nella sua situazione di padre di una giovane famiglia mi proponevo di affrontare con il paziente il suo problema, quello cioè di avere ormai un identificabile limite temporale alla sua vita e di poter quindi usare il tempo residuo in un modo cosciente e libero. Fui impedito di attuare il mio proposito dal fratello prete, che si oppose con la motivazione di evitare al paziente lo stato della disperazione.
Andavo ogni tanto a trovarlo, perché in assenza di metastasi diffuse in altri distretti egli si spegneva molto lentamente, sostenuto come era dalla nutrizione parenterale. Un mattino il medico di reparto mi accolse con un sorriso soddisfatto e, tutto orgoglioso, mi informò che nel corso della notte il paziente aveva avuto un arresto cardiaco, ma erano stati così bravi e tempestivi da intubarlo, defibrillarlo e riprenderlo. Morì venti giorni dopo.
Un secondo caso riguarda una signora Triestina, laica ed amante della vita come solo la Triestine sanno essere, che fu operata all’eta di 43 anni da Pezzuoli per un sarcoma del cardias altamente indifferenziato con linfonodi positivi. La paziente fu inviata a domicilio con la pietosa diagnosi di ulcera gastrica, ma riuscì a venire in possesso, tramite il medico di famiglia, della vera diagnosi e ricorse alla enciclopedia britannica per studiare il proprio caso. Vi era scritto che la prognosi era infausta al 100%, ed anche noi a dire il vero eravamo convinti della prognosi negativa. Io controllavo periodicamente in ambulatorio questa paziente che, piangente e ormai convinta della fine prossima della sua vita, mi descriveva sintomi che mi spingevano a cercare quella recidiva che logicamente io come tutti ci aspettavamo. Passarono gli anni e la recidiva non venne mai. La paziente passava da una depressione all’altra fino a trascorrere alcuni periodi in clinica psichiatrica. Morì di vecchiaia, ma la guarigione chirurgica fu del tutto inutile per la qualità della vita.
Il terzo ed ultimo caso riguarda un religioso, combattivo leader della chiesa del dissenso, che era affetto da una neoplasia del pancreas localmente avanzata, infiltrante i muscoli paravertebrali. Era affetto da dolori insopportabili e perciò, dopo molti ripensamenti e colloqui con il paziente che era cosciente del suo male, mi decisi ad operarlo, eseguendo la asportazione della massa macroscopicamente visibile ed avviandolo ad un trattamento adiuvante. Ciò ottenne la scomparsa del dolori ed una ripresa della qualità della vita che permise al paziente di scrivere alcune delle sue più belle espressioni artistiche. Era infatti un poeta e cantava forti sentimenti umani e religiosi. Con lui avevo più volte parlato del problema della fine della vita con molta serenità e fiducia. Era una cosa che accettava facilmente, mi disse, mentre non riusciva a darsi una spiegazione teologica del dolore fisico. Dopo un anno e mezzo ebbe una recidiva occlusiva e lo rioperai in modo palliativo per ricanalizzarlo. Continuava intanto a scrivere e a predicare. Dopo un altro anno era in fase terminale per il progredire inesorabile della malattia e mi chiamò a Milano al suo capezzale.
“Professore – mi disse con il suo sguardo ribelle e lottatore- cavami questa cosa dalla pancia” .
Cacciai via tutti dalla stanza per parlargli a tu per tu.
“Davide – gli risposi- sono venuto a trovarti in veste di amico e non di medico curante. Sono venuto per sapere se tutto quello che hai detto e scritto è una cosa in cui credi veramente. Io ci credo. E tu?”
La luce della lotta si spense nel suo sguardo.
“ Ho capito. Ho capito “ ripetè ed un velo che non saprei come definire scese su di lui.
Due giorni dopo era morto. Mi chiedo ancora se, dicendogli la verità, ho fatto bene o ho fatto male.
Ermanno Ancona